La Cura del Vero

Una luce nel buio in Palestina

Parole di speranza, azioni di riconciliazione

Ieri sera a San Michele al fiume, un piccolo paesino della Valle del Cesano (Pesaro e Urbino), si è svolto un incontro intitolato “Pratiche di pace”, organizzato da un’associazione culturale locale – l’iperattiva “Fuoritempo” (https://fuoritempo.info/) – e ospitato dalla parrocchia della chiesa cattolica.

Al centro dell’incontro una donna palestinese, Layla al-Sheik, cittadina del villaggio di Battir, a cinque chilometri da Betlemme. Il giorno prima era stata ospite dell’incontro di apertura del Meeting di Rimini 2025, insieme a Elana Kaminka, una donna israeliana, (https://www.avvenire.it/attualita/pagine/le-due-madri-al-meeting). Entrambe sono impegnate in un gruppo che si chiama “Parents circle-families forum” (https://www.theparentscircle.org/en/homepage-en/), il ‘circolo dei genitori’, nato nel 1998.

Ma chi sono questi “genitori”? Quali “famiglie” rappresentano?
Sono padri e madri, famiglie che hanno perso (almeno) un familiare nel conflitto israelo-palestinese: Layla vide morire il piccolo Qusay, di appena sei mesi, nel 2002; Elena, che ieri sera non c’era perché già rientrata in Israele, piange Yannai, il figlio 21enne, ucciso in divisa il 7 ottobre 2023.

Sono palestinesi e israeliani, sono persone ferite, addolorate, arrabbiate e deluse che cercano, tutte insieme, di trasformare la rabbia, il desiderio di vendetta, in qualcos’altro. Per esempio: il dialogo, il reciproco riconoscimento, la pace.

C’è qualcosa di enorme, controintuitivo, quasi miracoloso in quello che la signora Layla ci ha raccontato. La sua storia è tremenda come tante altre, purtroppo. Ma ascoltarla dalla sua voce è stata un’emozione intensissima.

Era l’Aprile 2002, era in corso la “seconda Intifada” (https://it.wikipedia.org/wiki/Seconda_intifada). Qusay, il suo bambino, aveva appena sei mesi quando, asfissiato dai gas lacrimogeni lanciati dai soldati israeliani contro il suo villaggio, morì dopo un assurdo calvario, alla ricerca di un ospedale che lo soccorresse. Furono proprio i militari di Tel Aviv a vietarne il trasporto in ospedale, impedendo a Layla e a suo marito di salvarlo.

«Ho impiegato sedici anni per trovare una ragione in quanto era successo» ha spiegato Layla ieri sera. Dopo aver evitato per anni di parlare della tragedia agli altri suoi figli «perché non covassero un desiderio di vendetta autodistruttivo», ha incontrato il “Parents circle” del quale ora fa parte. Lì, per la prima volta dalla morte di Qusay, «ho guardato un israeliano come un essere umano, come me».

Eravamo in cinquanta, forse sessanta, di fronte a lei, ieri sera. Qualcuno di noi ha posto domande, ha chiesto chiarimenti, ha vinto la consueta timidezza che spesso congela questo tipo di incontri. Lo abbiamo fatto in tanti, perché l’esempio che Layla e il “Parents circle” ci hanno offerto è davvero prezioso, al di là delle contraddizioni enormi che certo non mancano su entrambi i fronti e che, a un’analisi appena un po’ attenta, non possono non emergere nella loro stupefacente crudezza.

Certo, parlare di pace e di riconciliazione mentre l’esercito israeliano compie impunemente stragi quotidiane, a Gaza e in Cisgiordania, sembra un lusso da fricchettoni, una divagazione da eterni illusi, una scelta quasi idiota. Roba da “imbelli”, direbbero certi editorialisti del Corriere della Sera.

Eppure, se c’è una cosa che ho imparato, ieri sera, è che «solo di notte si possono vedere le stelle». Sono parole di un padre disperato per la morte del figlio, rievocate da Layla al-Sheik, madre di un bimbo ucciso dalla cieca crudeltà di chi si ostina a vedere, nell’Altro, sempre e solo una minaccia, un nemico, un avversario.

In questa notte tanto buia, nella quale in molti ci sentiamo impotenti di fronte alla strage immane di Gaza, abbiamo tutti molto da imparare dall’avventura del “Parents Circle” e dalle storie delle donne e degli uomini che ne parlano, in giro per il mondo, per testimoniare e diffondere la speranza in un mondo diverso da questa prigione che puzza di cordite e di morte.

  • Stefano Lamorgese

    Stefano Lamorgese (Roma, 1966) è un giornalista di formazione umanistica. Alla Rai dal 1990, ha lavorato per TG3, Rai International, Rai2 e Rainews24. Dal 2017 fa parte della redazione di Report/Rai3. Ha insegnato linguaggi multimediali e cultura digitale presso le università di Urbino, Ferrara e Perugia. È Vicepresidente dell'Associazione Amici di Roberto Morrione, che promuove dal 2011 il Premio giornalistico omonimo, dedicato agli Under30. Storico per passione, ha pubblicato con NewtonCompton "I signori di Roma" (2015).

LEGGI ANCHE...
20250825_1046_Cartelloni con Grafici Finanziari_remix_01k3g6ctb3fb8tf9fp29ckd96z
Operazioni di giustizia sociale
Parlare di giustizia sociale e inclusione, oggi, suona ancora per molti come un discorso “di contorno”....
20250808_1823_Scuola Uniformità e Disciplina_simple_compose_01k257rn2dfcgvk6dqwkdhh9dw
Scuola, la battaglia sulle nuove Indicazioni Nazionali: tra pedagogia democratica e svolta ideologica
A cura di Mariagrazia Cotugno, Roberta Majuri, Maria Zallo In un’Italia attraversata da tensioni sociali,...
Immagine realistica generata dall'IA di un gruppo di persone manifestanti, di età, etnie, culture, genere e orientamento sessuale diversi. Le persone in prima fila stringono uno striscione con scritto "Perdere il diritto di essere diversi è perdere il diritto di essere liberi" e sullo sfondo si legge un altro cartello con la scritta "Right to be who we are".
La libertà non è un’eredità, è una responsabilità
Viviamo un tempo attraversato da tensioni profonde. Il conflitto in Medio Oriente, con la tragica escalation...
RICERCA