La Cura del Vero

In una pastasciutta l’inno alla pace e alla memoria antifascista

«Nel menù del 25 Aprile inserirai la pastasciutta della famiglia Cervi?». La domanda la pongo alla simpatica titolare di una trattoria di un paesino della gioiosa Marca, il cui capoluogo Treviso è una delle città decorate al Valor militare, insignita della Medaglia d’oro il 13 aprile 1948 per le sofferenze patite dalle popolazioni e per l’attività nella lotta partigiana durante la Seconda guerra mondiale.

Mi guarda spalancando sincera i bei occhi blu, lo sguardo smarrito. Capisco che non sa di cosa parlo. Non voglio metterla in imbarazzo. Le chiedo: «Quanti anni hai?».  Scopro, anche se sembra più giovane, che potremmo essere quasi coetanee, circa 8 anni di differenza. Io che mi affaccio ai sessanta. Non mi capacito che in appena una decade si sia persa traccia, nell’Italia repubblicana antifascista, di uno degli episodi più cruenti e famosi della lotta di Resistenza. La storia della famiglia Cervi, del papà Alcide, rimasto in un solo giorno privo dei sette figli, insieme a mamma Genoeffa, te la raccontavano alle elementari, e bambina il maestro ti faceva recitare le poesie o leggere le lettere dei partigiani condannati a morte davanti al monumento dei Caduti: la mattina del 25 Aprile, sindaco in testa e anche il parroco, e tutte le scolaresche. Guai a non esserci.

Cosa è successo? Cosa o chi siamo diventati? Perché così tanto impegno nel cancellare la memoria, certa memoria?

La Festa della Liberazione è scomoda perché ci ricorda un passato che non ci rende orgogliosi, un passato fatto di sopraffazione, di violenza, di sangue innocente: un’Italia colpevole di avere portato una guerra di aggressione – come più volte sottolineato da Antonio Scurati, autore della preziosa opera “M”  – in cinque paesi, fregandosene del destino segnato di tanti soldati mandati letteralmente al massacro. Non comprendo, nel profondo, come e perché si possa essere nostalgici del Ventennio o affermare che Mussolini sia stato un grande statista. Ripeto, non lo comprendo. O si è in buona fede e non si è capito nulla, o si è in cattiva, cattivissima fede.

Ma la Festa della Liberazione ricorda, testimonia, celebra – ed è questo il suo valore più autentico – il riscatto da quell’Italia occupata e dilaniata dagli alleati tedeschi con la piena complicità e adesione del regime fascista, nato dalla ribellione anche di tante ragazze e tanti ragazzi, poco più che ventenni e di ogni estrazione sociale, accomunati dalla determinazione di mettere fine a decenni di brutale oppressione fisica, psicologica, sociale.

La Festa della Liberazione non è scomoda per chi crede nella Repubblica democratica, nella Carta costituzionale che ne è madre e padre, nei principi di uguaglianza e fratellanza universale, nel diritto alla salute, alla scuola pubblica, alla giustizia eco-sociale, al lavoro dignitoso. Alla pace.

Chi ha combattuto 80 anni fa per la liberazione dal nazifascismo – non da altro, è bene ricordarlo sempre – lo ha fatto innanzi tutto per la pace. Condizione quest’ultima per ogni autentica convivenza civile e umana. Pace che mai come in questo 2025 appare così fragile e indifesa.

Il 25 Aprile quindi è un inno alla pace, che è libertà: eppure continua a essere tanto osteggiato, addirittura attaccato, oscurato, dileggiato. C’è in atto da tempo il tentativo di obnubilare dalle coscienze il profondo significato di questa celebrazione collettiva, comunitaria. È una strategia precisa cominciata in sordina e che ora si è fatta a dir poco sfacciata.

La concomitanza tristissima della morte di Papa Francesco – il Papa della pace invocata e implorata fino all’ultimo respiro di vita terrena – e la proclamazione da parte del governo di 5 giorni di lutto nazionale, che ricomprendono la ricorrenza del 25 Aprile, ha fornito il destro al ministro Musumeci di raccomandare sobrietà nelle celebrazioni quasi a voler paragonare i cortei, le manifestazioni, le iniziative, passate e future, a una sorta di baccanali senza senso, senza contenuti simbolici e reali. Un tipo di monito tanto superficiale quanto insidioso che fa il paio con la dichiarazione fatta due anni fa dal presidente del Senato, il quale sostenne che in via Rasella vennero uccisi i componenti di “una banda musicale di semi-pensionati e non nazisti delle SS”, addossando ai partigiani tutta la responsabilità del conseguente eccidio della Fosse Ardeatine.

Un falso storico palese che però ha presa nelle menti di chi non conosce, non ha studiato, non si interessa, in un Paese in cui consapevolmente non si ha alcuna remora ad aumentare il debito pubblico per il riarmo e tagliare la spesa per l’istruzione, bene pubblico, così come la sanità sempre più in mano ai privati.

In atto c’è una operazione di rimozione a più livelli che mina le fondamenta della Costituzione nella sua integrità, scritta – non sotto la dettatura dei vincitori  proprio perché hanno riconosciuto il ruolo unico e fondamentale della Resistenza – dalle italiane e dagli italiani proprio grazie al sacrificio dei partigiani, che non hanno tradito la patria, che non sono stati vigliacchi – come li dipinge certa retorica neofascista – bensì hanno permesso alle generazioni future di vivere in un Paese libero, democratico, civile, solidale, senza guerre.

Un Paese dove si può decidere cosa mangiare e cosa no. Già perché Mussolini aveva persino imposto una dieta a base di cereali, prediligendo il riso e bandendo la pasta.

E allora viva la pastasciutta antifascista, quella che papà Alcide Cervi e mamma Genoeffa, con i loro sette figli, prepararono e offrirono gratis – chiedendo credito per comprare gli ingredienti – aprendo alla gente di Gattatico (Re) la loro cascina ora diventata Museo, il 28 luglio del 1943 alla notizia della caduta del regime fascista, e poi diventata il piatto dell’Italia liberata.

Spaghetti, parmigiano, burro. E tanta voglia di stare insieme respirando a pieni polmoni quella libertà che, citando Calamandrei, è come l’aria, ti accorgi che manca quando è troppo tardi. Buona Festa della Liberazione.

  • Monica Andolfatto

    Componente della giunta esecutiva della Federazione Nazionale Stampa Italiana, dal 2017 è segretaria regionale del Sindacato giornalisti Veneto. Membro del comitato direttivo dei i due corsi di Alta Formazione ‘La passione per la verità e la costruzione di contesti inclusivi’ organizzati con l’Università di Padova e insieme a FNSI, Articolo 21, Sindacato Giornalisti del Veneto. Giornalista con la passione del linguaggio e del suo utilizzo nella pratica quotidiana di chi fa informazione. Impegnata nella difesa dei diritti dentro e fuori le redazioni. È fra le ideatrici e promotrici del Manifesto di Venezia, una delle “carte” di autoregolamentazione della categoria contro la discriminazione di genere e la violenza sulle donne attraverso parole e immagini. Cronista di nera del Gazzettino dal 2004 ha documentato, fra le altre, le inchieste dello scandalo Mose e dell’infiltrazione camorristica nel Veneto orientale. In precedenza libera professionista nei diversi ambiti della comunicazione.

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