Noi italiani chiamiamo il 25 Aprile “Festa della liberazione”. Ci siamo abituati a questa parola, ci siamo assuefatti a tal punto da averla accettata con quel grado d’indifferenza che tributiamo a una tappezzeria che un tempo ci era piaciuta molto ma che oggi, un po’ stinta e consumata, non suscita più in noi alcuna emozione: sta lì, sullo sfondo. E ci dà quasi fastidio, tanto è malridotta.
E invece quel concetto – la Liberazione – merita oggi, ottanta anni dopo, più di una semplice riflessione. Da che cosa ci liberò quel 25 Aprile, infatti? Dal regime fascista, certo. Dalla sanguinaria illusione nazi-repubblichina? Sicuro. Dall’infame famiglia Savoia? Certo: in poco più di un anno si arrivò al referendum. Dalla guerra? Vero: sarebbe finita da lì a pochi giorni in Europa, con la bandiera dell’URSS nel cielo di Berlino e, dopo qualche mese, in Asia, con le stragi atomiche di Hiroshima e Nagasaki.
Ma a me piace pensare che il 25 Aprile 1945 abbia rappresentato, e rappresenti ancora, l’esito di un lungo, sofferto, contraddittorio movimento di liberazione dal più grande dei pur numerosi e terribili mali che il fascismo aveva promosso, prodotto e alimentato: il conformismo. I partigiani combattenti furono poche decine di migliaia, circa 150mila uomini e donne che – così si diceva allora – erano “saliti in montagna”. Alle loro spalle altrettanti fiancheggiatori, attivi nella logistica e nella propaganda. Cinquantamila caddero in combattimento. A confronto della massa degli italiani che avevano invaso le piazze del duce, sono numeri esigui, minoritari, scarsi.
Ma proprio qui sta il punto. Che cosa spinse quegli uomini e quelle donne a disobbedire? Quale fu la scossa che li portò a imbracciare il fucile? La stanchezza, la rabbia, la sete di futuro? Migliaia di motivazioni, talvolta anche un più che legittimo desiderio di rivalsa, convergono su un monumentale significato politico: il rifiuto del conformismo, concetto chiave del fascismo.
La ribellione dei partigiani fu proprio questo: un feroce Basta! gridato in faccia al PNF, il partito unico, alla camicia nera, alle adunate sempre oceaniche, ai capipalazzo, alle divise, ai littoriali, al disprezzo del diverso, alle smorfie grottesche del duce, all’olio di ricino, ai balilla, ai tribunali speciali, ai fasci littori, alla sopraffazione fisica, alla violenza deliberata, alla rapina, al ladrocinio e all’assassinio come strumenti di governo.
Il 25 Aprile 1945 i partigiani mostrarono in piazza che era possibile scrollarsi di dosso il conformismo dell’obbedienza, che era lecito calpestare il conformismo del pensiero, che era giusto rifiutare il il conformismo dell’obbedienza, che era lecito calpestare il conformismo del pensiero, che era giusto rifiutare il conformismo del potere.
Per queste ragioni è ancora utile, indispensabile, celebrarlo: abbiamo bisogno di quel coraggio, di quella dedizione, di quello spirito di sacrificio per combattere ogni forma di conformismo, anche quella che la tecnocrazia dei media ci ha cucito addosso, con un nuovo “menefrego” da opporre a chi crepa a Gaza, muore in Ucraina, consuma la vita in un carcere israeliano, venezuelano, russo o statunitense.
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Stefano Lamorgese (Roma, 1966) è un giornalista di formazione umanistica. Alla Rai dal 1990, ha lavorato per TG3, Rai International, Rai2 e Rainews24. Dal 2017 fa parte della redazione di Report/Rai3. Ha insegnato linguaggi multimediali e cultura digitale presso le università di Urbino, Ferrara e Perugia. È Vicepresidente dell'Associazione Amici di Roberto Morrione, che promuove dal 2011 il Premio giornalistico omonimo, dedicato agli Under30. Storico per passione, ha pubblicato con NewtonCompton "I signori di Roma" (2015).