Tratto da scuolademocratica.it
Il “conflitto” tra scuola e famiglia non è una patologia, ma una condizione normale del sistema educativo. È il prodotto di una tensione costitutiva tra due istituzioni che, pur condividendo l’obiettivo della formazione dei giovani, rispondono a logiche e finalità differenti.
Inoltre, è sempre presente ma cambia di forma e contenuto a seconda dei momenti storici.
La scuola è chiamata, da una parte, a educare alla cittadinanza, a trasmettere saperi e regole comuni, a garantire uguaglianza di opportunità. Dall’altra, svolge una funzione di classificazione, triage e selezione (spesso oscura e ingiusta) che contribuisce ad attribuire agli individui un’identità sociale e un destino professionale.
La famiglia, invece, è orientata alla protezione, all’investimento affettivo e alla promozione individuale del proprio figlio. Il progetto scolastico rientra quindi (soprattutto oggi) nel quadro delle sue strategie di riproduzione biologica e sociale.
Tra queste due logiche – la logica pubblica dell’istituzione e quella privata della cura e delle strategie di riproduzione – si costituisce una dialettica ineludibile.
Negli anni Ottanta questo conflitto aveva una fisionomia diversa. Era il conflitto tra una scuola selettiva, spesso violenta nei suoi giudizi, e le famiglie delle classi popolari o della piccola borghesia che subivano in silenzio la sua autorità. Per quanto, reagissero a questa violenza istituzionale semplicemente con l’autocolpevolizzazione e l’abbandono, nondimeno si trattava di conflitto. La selezione – largamente una selezione di classe – interessava oltre metà dei ragazzi italiani che usciva senza un diploma secondario dal sistema scolastico. La scuola esercitava, dunque, la sua funzione di distinzione e di esclusione (giudicava, selezionava, bocciava e classificava). Chi non possedeva il capitale culturale necessario era destinato, con probabilità estremamente maggiori, al fallimento.
Da parte sua, la scuola difendeva il proprio prestigio anche grazie ai meccanismi di esclusione, che riproducevano meccanicamente le disuguaglianze sociali.
Con gli anni Novanta cambia lo scenario. L’ideologia della “società della conoscenza” e l’utopia di un posto di lavoro per tutti nei servizi diventano il nuovo paradigma che guida le riforme e impregna il senso comune come il discorso politico. L’imperativo diventa: diplomare tutti e laurearne il maggior numero possibile. Le politiche educative estendono l’obbligo scolastico a sedici anni e quello formativo a diciotto. La scuola si apre dunque, almeno formalmente, a un pubblico più ampio e diversificato. Anche se – come ho scritto altrove – le disuguaglianze vengono riprodotte al suo interno (cfr. Effetti di Campo).
Ma mentre la scuola cambia, cambia anche la famiglia. Con la denatalità si riduce il numero dei figli e la loro “scarsità” li trasforma in oggetti di un investimento affettivo e simbolico senza precedenti. I genitori concentrano aspettative, ansie e risorse su uno o due figli, per i quali, tutto deve funzionare, tutto deve essere giusto, tutto deve essere all’altezza. Questa pressione è anche il nucleo morale dell’ideologia neoliberale diffusa dai media, dalle riforme e dai dispositivi di valutazione esterna. La vita è una gara tra individui che competono e la scuola è il primo terreno di questa competizione.
Questo fatto cambia radicalmente anche significato sociale dell’abbandono scolastico.
Negli anni Ottanta, gli studenti che abbandonavano la scuola dopo la terza media non erano necessariamente dei loser (perdenti) anche dal punto di vista sociale. L’entrata nel mondo del lavoro garantiva a un giovane “drop-out” una identità sociale comunque solida, densa e sostenuta socialmente. Oggi chi esce dal percorso scolastico è chiaramente un perdente – salvo in alcune aree dove persistono specifiche subculture. Chi esce dalle classificazioni ufficiali dello studio e del lavoro è un marginale etichettato con la molto discutibile nozione di NEET.
Come ho scritto altrove, le politiche della scelta scolastica e l’ideologia neoliberale della competizione sono penetrate a tutti i livelli del sistema educativo e impregnano la psicologia delle famiglie (nda. L’orientamento a scuola). Il mito della “competizione virtuosa” tra scuole, tra studenti e tra territori prodotto dalle riforme neoliberali ha sostituito la promessa di uguaglianza della scuola repubblicana. La retorica della libertà di scelta ha reso le famiglie responsabili delle proprie decisioni e, implicitamente, dei fallimenti che ne derivano. Questa concezione del mercato scolastico ha trasformato lo studente e la famiglia in clienti di un servizio da cui pretendere qualità, efficienza e personalizzazione. Quindi non più membri di una comunità, parte di un’istituzione, e nemmeno utenti. Ma clienti con le pretese del cliente (che si dice, abbia sempre ragione…).
Un cambiamento profondo ha investito anche il senso del futuro. La pressione esterna sul successo individuale produce un’ansia diffusa, un sovraccarico emotivo e simbolico che trasforma ogni scelta scolastica in una questione di destino. Si moltiplicano le paure, i sensi di colpa, le aspettative esasperate. Dietro ogni voto, ogni orientamento, ogni decisione si nasconde il timore di un fallimento irreversibile.
In questo contesto, il conflitto tra scuola e famiglia non è la ribellione delle classi popolari contro un’istituzione classista che le esclude, ma il confronto tra due forme di potere educativo.
Da un lato, la scuola mantiene la sua opacità intorno ai suoi meccanismi di triage. Dall’altro le famiglie, divenute più esigenti e assertive, vivono il rapporto con la scuola in termini di diritti individuali (e non collettivi) e di una relazione sempre più consumistica.
Dunque, il riformismo neoliberista lungi dal rendere qualche sorta di prestigio perduto alle scuole o agli insegnanti ne ha acuito il senso di crisi. Non fosse altro che il sistema di valutazione sembra pensato per costruire un senso comune di fallimento scolastico.
Per superare questa crisi di senso, occorre innanzitutto abbandonare il modello neoliberale e le sue retoriche oramai stantie. Recuperando un’idea di autonomia radicalmente democratica, che ridia valore alla scuola come istituzione e come comunità di docenti e discenti legata al proprio contesto sociale e a un senso condiviso.
In secondo luogo, occorre abbandonare il discorso moralista e patologizzante sul conflitto scuola-famiglia. Questo conflitto va compreso innanzitutto nella sua radice strutturale, cioè come la normale tensione tra due visioni – egualmente legittime – dell’esperienza educativa ed esistenziale di una/un discente. Se gli insegnanti considerano quel “conflitto” come un vulnus insanabile, ciò avviene perché la dialettica strutturale con la famiglia viene trasforma in opposizione e non in “interlocuzione”.
Il problema non è dunque eliminarlo, ma trasformarlo in un dialogo consapevole che restituisca alla scuola il suo ruolo pubblico e alla famiglia la sua funzione di sostegno, non di sostituzione.
Per farlo, occorre riconoscere che l’educazione non è un mercato e che la fiducia non può essere ridotta a trasparenza o efficienza. Occorre affermare che la scuola è uno spazio pubblico, ed è dunque essa stessa un bene comune, e non un servizio individuale customizzato il cui compito è formare persone come cittadini, non attrarre e gestire clienti.
Solo dentro questa prospettiva il conflitto tra scuola e famiglia può ritrovare senso, come luogo di confronto sul significato dell’educare, sulla giustizia delle regole e sul futuro – comune, e non soltanto personale – che vogliamo costruire per i nostri figli e le nostre figlie.
Tale dialettica è il rapporto sano di mutuo riconoscimento della diversità dei ruoli e degli obiettivi.
È fondata sul rispetto reciproco. Ma, per dispiegarsi e non essere corrotta, è necessario ricostruire un nuovo modello di scuola, di orientamento e di scelta scolastica.
Occorre dunque cambiare radicalmente il modello di autonomia, dentro un nuovo progetto di società fondato sui valori dell’inclusione, della sostenibilità, del lavoro e della partecipazione democratica. Insomma, serve mettere al centro i valori della Costituzione e riaffermare contro il progetto neoliberale l’idea di una scuola democratica e repubblicana. (Per approfondire: Scuola Democratica, 25 settembre 2025).
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Professore ordinario di sociologia presso il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università di Cagliari, di cui è Direttore, è membro del Centre Européen De Sociologie et de Science Politique – EHESS de Paris. Ha diretto dal 2009 al 2022 il Centro Interuniversitario per la Ricerca Didattica e fondato e diretto nel 2023/2024 il Dottorato in Ricerca e Innovazione Sociale (UniCA). È membro del board della Rivista «Scuola Democratica» e di «Rassegna Italiana di Sociologia». Le sue ricerche si estendono dal campo delle politiche educative e dell’innovazione pedagogica e tecnologica nella scuola allo studio delle scelte scolastiche e dei dispostivi di orientamento, con particolare attenzione alle diseguaglianze sociali nella scuola.