La Cura del Vero

Il peso del ricordo, il dovere della memoria: 61 anni fa il disastro del Vajont

1.910 persone. Tante quante la popolazione di decine e decine di Comuni veneti. Solo che queste sono state spazzate via in pochi minuti. Morte. Altrettante sono rimaste senza casa, senza vestiti, senza niente. 

Non è il Medioriente. Non è l’Ucraina. Non è la descrizione di una scena di guerra. È un’immagine che arriva dal passato: 61 anni fa esatti si verificò una delle più grandi stragi causate dall’uomo. La scena è quella di Longarone, dopo il disastro del Vajont. 

LA DIGA

Vajont è il nome del torrente che scorre nella valle di Erto e Casso (PN) per confluire nel Piave, davanti a Longarone e a Castellavazzo, in provincia di Belluno. Tra il 1957 e il 1963 la morfologia della valle del torrente Vajont venne profondamente modificata dalla costruzione di una imponente diga a doppio arco dell’altezza di 261,60 metri e della lunghezza di 190 metri alla sommità. Lo sbarramento del torrente avrebbe permesso la creazione di un lago della capacità complessiva di circa 170 milioni di metri cubi, destinato a raccogliere acqua proveniente da tutti i bacini artificiali del Cadore, per poi convogliarla alla centrale elettrica di Soverzene. 

Al tempo la normativa non prevedeva l’obbligo di valutare la stabilità dei versanti dei futuri invasi e quindi le perizie risultarono sotto questo profilo incomplete. Solo nel 1959, a lavori quasi conclusi, e in seguito a una frana avvenuta il 22 marzo nel vicino bacino idroelettrico di Pontesei (Forno di Zoldo, BL) si decise di approfondire le indagini geologiche. L’incarico fu affidato, tra gli altri, al geologo austriaco Leopold Müller che si avvalse della collaborazione di due geologi italiani, Edoardo Semenza, figlio del progettista della diga, e Franco Giudici. Nella loro relazione definitiva, consegnata nel giugno 1960, i tecnici affermarono che sul versante settentrionale del monte Toc prospicente l’invaso era presente una frana antica, già scivolata in epoca preistorica a sbarrare la valle, che a seguito della creazione del lago avrebbe potuto muoversi nuovamente. 

Nel frattempo, nel settembre del 1959, la diga venne ultimata e iniziarono le prove di invaso. Nel marzo 1960 sul versante si manifestò una grande fessura a forma di M lunga oltre 2 km e larga circa un metro. Nel novembre dello stesso anno si staccò una frana di circa 700mila metri cubi che, precipitando all’interno dell’invaso, generò un’onda anomala di circa 10 metri di altezza. Subito dopo questo evento, venne disposto lo svaso controllato del bacino e i movimenti rallentarono subito fin quasi a fermarsi. Negli anni successivi vennero effettuate altre prove di invaso a seguito delle quali i movimenti della frana si riattivarono. 

IL 9 OTTOBRE 1963

Il 26 settembre 1963 si decise di procedere con lo svaso, ma il provvedimento non ebbe l’effetto sperato e il movimento della massa continuò ad aumentare, fino a raggiungere la mattina del 9 ottobre i 30 centimetri al giorno. Lo stesso giorno alle 22.39, la frana si staccò. Un volume di roccia di circa 270 milioni di metri cubi scivolò a una velocità di circa 70-90 km/h e, in una ventina di secondi l’intera massa raggiunse il lago. L’impatto con l’acqua generò un’onda di circa 50 milioni di metri cubi che si divise in più direzioni: una parte lambì le abitazioni di Casso, un’altra distrusse alcune frazioni di Erto e Casso, e un’altra ancora scavalcò la diga, precipitando nella stretta valle sottostante. 

In pochi minuti circa 25 milioni di metri cubi di acqua e detriti raggiunsero Longarone e la spazzarono via con la quasi totalità dei suoi abitanti. Si stima che la potenza sprigionata dall’onda e dal suo spostamento d’aria fosse superiore a quella della bomba di Hiroshima. 

Insieme con Longarone vennero distrutti gli abitati di Pirago, Maè, Villanova e Rivalta (in provincia di Belluno), Frasèin, Col delle Spesse, Il Cristo, Pineda, Ceva, Prada, Marzana, San Martino, Faè e la parte bassa di Erto (in provincia di Pordenone). Vennero distrutte 895 abitazioni e 205 unità produttive a Longarone, la ferrovia Belluno-Calalzo venne divelta per 2 km e la statale 51 distrutta per 4 km. L’evento dimezzò la superficie a seminativo, e andò perduto il 30% del bestiame. I morti furono 1.910, 400 dei quali mai più ritrovati e quasi 300 bambini. 

LA VICENDA GIUDIZIARIA E IL DOVERE DELLA MEMORIA

Il disastro del Vajont fu una delle più grandi stragi provocate dall’uomo. Le sentenze definitive della magistratura decretarono la effettiva prevedibilità dell’evento e la responsabilità umana (oggi si possono consultare i faldoni processuali in rete, visto che l’intero fascicolo Vajont è stato digitalizzato www.archiviodigitale.icar.beniculturali.it/it/185/ricerca/detail/2640344).

Imperizia, superficialità, avidità furono le cause remote della tragedia. «Aver anteposto la logica del guadagno alla cura dell’uomo e dell’ambiente in cui vive. E l’avidità distrugge, mentre la fraternità costruisce» come ha detto Papa Francesco nel gennaio scorso, incontrando i superstiti e sopravvissuti del Vajont. 

Una superficialità che venne portata allo scoperto prima del 9 ottobre 1963 da Tina Merlin, che però rimase inascoltata e anzi denunciata per un presunto procurato allarme. Mentre anche all’indomani del disastro molti minimizzarono (emblematico il caso del bellunese Dino Buzzati, che descrisse l’onda con tratti narrativi, “il sasso caduto nel bicchiere e l’acqua rovesciata sulla tovaglia”). 

Oggi quella superficialità va contrastata con l’accuratezza, strumento fondamentale ed essenziale del giornalista, del cronista, di chi vuole essere testimone degli eventi. Vale per la memoria del Vajont, ma per le tante vicende di avidità e di sfruttamento che ancora troppo spesso condizionano la società contemporanea. 

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