Negli ultimi anni il mercato delle armi ha subito un’impennata.
Per questioni di sicurezza, dicono alcuni. A causa delle tante guerre nel mondo, dicono altri. E se fosse vero il contrario, e cioè che è l’aumento delle armi per arricchire pochi a scatenare le guerre?
di Giulia Cananzi e Sabina Fadel (dossier Messaggero di Sant’Antonio Gennaio 2025)
«Il soldatino del pim pum pà» è una vecchia fiaba scritta dal grande autore per l’infanzia Mario Lodi. Racconta di un certo padron Palanca, il quale, non contento della sua già immensa ricchezza, va a proporre al re di dichiarare una guerra ai vicini, in modo tale che lui possa vendergli per cento stramilioni la strabomba che ha appena costruito ed arricchirsi così ancora di più. Il re abbocca, rassicurato da Palanca che compra anche alcune tv per convincere i cittadini dell’inevitabilità del conflitto bellico. Tutto sta per capitolare, se non fosse che il soldato che deve sganciare la strabomba si rifiuta di farlo, perché nelle potenziali vittime riconosce la comune umanità. Ed è così, conclude la fiaba, che «da quel giorno un’altra storia incominciò. In tutta la terra una storia senza guerra».
È solo una fiaba, appunto, ma, come tutte le fiabe, illumina le dinamiche perverse che spesso governano il mondo e caratterizzano le relazioni tra esseri umani o tra nazioni. Anche oggi. Già, perché oggi di padron Palanca è pieno il mondo: multimiliardari che, per arricchirsi ancora di più, fanno lievitare la produzione, il commercio e soprattutto la finanza legata alle armi, giocando con la vita di centinaia di migliaia di persone. Lo dicono i numeri: nel 2023 la spesa per la difesa a livello mondiale ha raggiunto 2.240 miliardi di dollari (Fonte: Sipri), pari al 2,2% del Pil mondiale, con un aumento del 9% rispetto alla precedente rilevazione. Un record. Il tutto mentre, pressoché ovunque, si fatica a reperire i fondi per l’istruzione o la sanità o la difesa dell’ambiente. Un rapporto dell’International Peace Bureau è illuminante in tal senso: basterebbe rinunciare a una sola fregata multiruolo europea (Fremm) per reperire i fondi per pagare lo stipendio di 10.662 medici all’anno (media Paesi Ocse). Ma, certo, bisognerebbe scegliere di rinunciare a una fregata o a una delle ultime sofisticatissime armi, per investire in beni di pubblica utilità. E questa scelta sarebbe uno dei compiti della politica che però, come ben sappiamo, ormai da anni è succube dello strapotere finanziario che genera ricchezza, per pochi, completamente sganciata dall’economia reale.
Finanza armata
Tra febbraio e marzo di quest’anno, le 71 «banche etiche» del mondo, raggruppate sotto la sigla Gabv (Global Alliance for Banking on Values), hanno diffuso un dettagliato rapporto di 32 pagine nel quale lasciano parlare i numeri della cosiddetta «finanza di guerra», quel composito mondo fatto di istituti finanziari, borse valori, singoli investitori che hanno scommesso sui conflitti nel mondo per arricchirsi: bene, tale investimento a livello mondiale ammonta a circa 1.000 miliardi di dollari. A guidare la classifica sono gli Stati Uniti, con investimenti che raggiungono più di 500 miliardi di dollari, mentre in Europa, solo le 15 maggiori banche, in armi investono circa 88 miliardi di dollari. E l’Italia? Al momento in cui scriviamo, la Legge di bilancio non è stata ancora approvata, ma, a detta del ministro della Difesa Crosetto, passeremo «dall’1,54% di quest’anno, all’1,57% del 2025» per poi giungere gradualmente al 2% nel 2028. Eppure le 71 banche etiche, che insieme al rapporto hanno diffuso un ulteriore documento, la «Dichiarazione di Milano: Manifesto per una finanza di pace», continuano a dire al mondo che una finanza di pace è possibile, e proprio loro ne sono la dimostrazione.
«Per capire i termini esatti della faccenda – spiega Anna Fasano, presidente di Banca Etica – va fatta una premessa: benché tutto il tema degli armamenti si poggi prevalentemente su risorse pubbliche (perché in sostanza è lo Stato che spende in armamenti una percentuale ben definita del Pil), i soldi che fanno arricchire davvero non vanno agli Stati, ma transitano per lo più attraverso la finanza speculativa, finendo nelle mani di pochi azionisti. Ed è questa speculazione che ammonta a quasi 1.000 miliardi di dollari, un importo sbalorditivo se pensiamo che a esso non corrisponde un aumento del benessere reale della società». La classifica dei grandi investitori nel settore delle armi è guidata dagli Usa, abbiamo visto: niente di strano, viene da pensare, dal momento che da sempre vengono dipinti come i «difensori del pianeta». Ma è proprio così? «Non esattamente – prosegue Fasano –. Quella degli Usa è una scelta politica, oltre che finanziaria ed economica. Nel Paese, infatti, l’investimento nelle armi avviene su più livelli. Civili (pensiamo alla diffusione di armi da fuoco tra la cittadinanza), militari (al di là dell’intervento diretto nei conflitti, circa 750 basi militari americane sono mantenute operative e vengono alimentate in tutto il mondo), economici (l’industria bellica statunitense sviluppa armamenti sempre più sofisticati ed è di gran lunga la principale esportatrice globale). Quindi la loro non è una scelta dettata dalla volontà di salvare il pianeta». Intanto anche l’Europa, attraverso la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, qualche mese fa ha annunciato di voler incrementare il settore delle armi, sia per questioni economiche che per questioni di sicurezza. E pure Mario Draghi, presentando qualche mese fa il rapporto sul «Futuro della competitività», ha espresso il medesimo auspicio. Ma davvero non c’è altro modo per migliorare le nostre finanze (oltre che la nostra sicurezza)? «A mio avviso – chiarisce Fasano – c’è all’origine un’idea sbagliata. Non voglio criticare Draghi né alcune parti del suo rapporto, ma quel documento si basa sul presupposto, errato, che investire nella difesa, oltre che strategico per far fronte alle minacce, rappresenti un driver, vale a dire un volano di crescita anche per altri settori. Ma questo oggi non è più vero: è ciò che deriva dalla ricerca civile ad avere ora degli impatti nell’industria militare. E lo dice “Forbes”, non Banca Etica… Basti pensare all’Intelligenza artificiale, frutto della ricerca del settore civile e passata solo successivamente a quello della difesa».
Appare dunque chiaro che la corsa al riarmo è spinta in grande misura dai crescenti profitti e dai guadagni finanziari che contraddistinguono le azioni delle imprese a produzione militare. Lo conferma una volta di più un recente rapporto di Mediobanca, il quale afferma che, tra l’inizio del 2022 e l’ottobre del 2024, il rendimento azionario delle prime 33 industrie della difesa quotate in borsa, pari al 72,2%, è più del triplo di quel 20,1% registrato dall’indice azionario mondiale (dato già molto alto rispetto all’andamento dell’economia reale). Dinanzi a tutto ciò, da più parti si è auspicata la creazione di una tassa sugli extra profitti dell’industria bellica. Ma sarebbe fattibile? «Il concetto di extra profitti è sempre un po’ difficile da definire: extra in base a che cosa? – chiarisce la presidente di Banca Etica –. Forse sarebbe meglio pensare a una tassazione maggiore di tutte quelle realtà, tra cui l’industria bellica, che perseguono investimenti non sostenibili, perché producono danni alle persone e all’ambiente. Purtroppo anche qui c’è un vulnus: alcuni Paesi in Europa vorrebbero infatti inserire gli armamenti nella Tassonomia sociale (la classificazione di quelle attività ritenute sostenibili dal punto di vista sociale, in base ad alcuni parametri), come se essi fossero un bene che garantisce risorse anche alle generazioni future… Ma se veramente il mercato delle armi rispondesse solo al bisogno di difesa e non alla speculazione, basterebbe stabilire dei prezzi imposti, bloccati: già questo provocherebbe un minor interesse a investire sulle fluttuazioni.
E non dimentichiamo che è ancora fermo alla Camera l’iter di modifica della Legge 185/90 che attualmente consente ai cittadini e al Parlamento di sapere, tra le altre cose, quali sono le banche che finanziano il mercato delle armi, mentre il Senato ha già deciso, lo scorso 21 febbraio, di cancellare proprio questi meccanismi di trasparenza e di controllo parlamentare.
Un pessimo affare
Spendere i soldi in armi, piuttosto che in ambiente, sanità, ricerca, scuola, non solo nuoce gravemente al benessere sociale, ma pregiudica l’economia e il futuro. A dimostrarlo, il rapporto «Arming Europe», condotto circa un anno fa da un team multidisciplinare di esperti per Greenpeace. Il rapporto mette a confronto le spese militari e quelle sociali nel corso del decennio 2013-2023, di tre Paesi europei che appartengono anche alla Nato, per verificare quali dei due tipi di spesa abbia un impatto più positivo sull’economia e sull’occupazione.
A illustrarci i dati principali di «Arming Europe» è una delle ricercatrici, Chiara Bonaiuti, consigliera scientifica di Opal (Osservatorio permanente sulle armi leggere), che ha realizzato l’analisi, coordinata da Mario Pianta, docente di Politica Economica (Normale Superiore di Firenze), insieme con Paolo Marzano, statistico (Milano-Bicocca), e Marco Stamegna, economista (Normale Superiore Firenze). La prima evidenza è che se si allunga la coperta delle spese in un comparto, si accorcia inevitabilmente negli altri. «Nel 2013-2023 la spesa militare dei Paesi Nato dell’UE ha raggiunto +46 per cento, e questo in un momento di stagnazione economica» afferma Bonaiuti.
La tendenza al riarmo inizia molto prima della guerra in Ucraina, all’indomani di un vertice Nato in Galles, nel 2014, che indicava ai Paesi dell’Alleanza l’obiettivo di non porre più un freno alle spese militari. E così, nel 2023, ogni cittadino dei Paesi europei della Nato, attraverso le tasse, ha pagato in media per le spese militari 508 euro, contro i 330 del 2013, anche se, ovviamente, c’è chi ha pagato di più e chi di meno. Gli altri capitoli di spesa, quelli legati a un’«economia di pace», sono cresciuti decisamente meno: «Negli stessi dieci anni la spesa pubblica totale (ovvero sanità, scuola, ambiente) dei Paesi UE della Nato – continua la ricercatrice – è cresciuta in termini reali del 20%, molto meno della metà rispetto alla spesa militare. E la situazione oggi è peggiorata».
Uno zoom sull’Italia chiarisce i termini della questione: «In quegli stessi dieci anni, le spese militari sono salite del 26% (del 132% quelle specifiche per gli armamenti), mentre le spese per la sanità appena dell’11%, per l’istruzione del 3% e per la tutela ambientale del 6%. Nello stesso arco di tempo, inoltre, il Pil è cresciuto del 9% (cioè meno dell’1% l’anno): poche risorse, dunque, sbilanciate nettamente verso le spese militari. E il risultato più evidente del disinvestimento nel sociale è la grave crisi del nostro sistema sanitario».
L’altro pregiudizio sfatato dal rapporto è che il comparto militare contribuisca a rilanciare l’economia e l’occupazione. «In Italia, 1.000 milioni di euro spesi in armamenti creano una produzione diretta e indiretta di 741,6 milioni di euro – continua la ricercatrice –, ma se spendiamo la stessa cifra in una delle voci di spesa pubblica, la ricchezza aumenta notevolmente: a 1.900 milioni di euro se si investe nell’ambiente, a 1.254 milioni di euro per investimenti nell’istruzione e a 1.562 milioni per quelli nella sanità». Decisiva la differenza anche nel numero dei posti di lavoro a tempo pieno creati, che sarebbero 3.160 per gli investimenti in armamenti contro i 9.960 posti nella protezione dell’ambiente, i 13.890 nella scuola e i 12.300 nella sanità. Cifre analoghe si riscontrano negli altri Paesi dell’Ue, «a dimostrazione che l’effetto moltiplicatore della ricchezza ce l’ha l’investimento in welfare o in economia civile, non in armamenti. Ciò è dovuto anche al fatto che l’UE importa l’80% degli armamenti (il 60% dagli Stati Uniti), andando ad aumentare profitti e occupazione di aziende extraeuropee» commenta Bonaiuti.
Con la stagnazione economica in Europa, che adesso ha colpito anche la Germania, la più forte economia dell’Unione, «bisognerebbe che i finanziamenti pubblici statali fossero investiti in ricerca per tutta una serie di settori, come l’energia verde, o per colmare il ritardo tecnologico o fronteggiare la crisi climatica. Mantenere questo livello d’investimenti nel comparto militare è insostenibile e controproducente per l’economia e per la vita della maggioranza della popolazione, oltre che pericoloso per la pace». D’altro canto, contrariamente a quanto viene detto, l’investimento militare da solo non aiuta nemmeno la deterrenza: «Si rischia, al contrario, che il riarmo diventi una profezia che si auto-avvera, che alimenta, cioè, a sua volta i conflitti e quindi la domanda di armamenti. Un circolo vizioso rischiosissimo, che deve essere assolutamente interrotto» afferma la ricercatrice. Eppure la narrazione dominante dice che siamo in un tempo in cui armarsi è assolutamente necessario per la nostra sicurezza: «Non è vero neppure questo – continua Bonaiuti –. Nei fatti è difficilissimo verificare scientificamente quanto la deterrenza funzioni, perché dipende da una serie di variabili e non è detto che si riesca a individuarle tutte». E spiega che Francesco Strazzari, docente di Relazioni internazionali, analizzando diversi studi, ha dimostrato che il conflitto in cui una delle parti viene armata da altri, non solo non si risolve, ma si aggrava, sia in senso orizzontale − coinvolgendo cioè altri Paesi − sia in senso verticale, − innescando un’escalation−. Come accade in Ucraina.
La maggioranza degli italiani (63%) è contraria ad aumentare le spese militari, nonostante la guerra in Ucraina, e solo il 9% sono i favorevoli (lo stesso si riscontra anche in Francia, Gran Bretagna, Grecia, Spagna). Tutto ciò è dovuto anche alla consapevolezza che il warfare comporta tagli al welfare e che la sicurezza passa anche dalla certezza di essere curati bene e di avere accesso a un’istruzione gratuita e di qualità. «Gran parte della popolazione europea è a favore di una politica estera che sia basata più sul dialogo, ma non sempre i rappresentanti politici e istituzionali si fanno portatori di tali richieste», insiste Bonaiuti. I risultati delle elezioni in Francia, Germania e Regno Unito sono anche letti dai ricercatori come protesta dell’elettorato contro decisioni che non lo rappresentano.
Come se ne esce rimane il grande tema: «Innanzitutto serve recuperare razionalità: fino a che punto ha senso spingersi in queste guerre? Poi ristabilire una legalità internazionale, rispettando i trattati e non rispondendo a una violazione con un’altra, come per esempio ridare il via libera alle mine antiuomo. E poi non fermarsi al riarmo, ma attivare e spendere tutte le risorse diplomatiche a disposizione. La sicurezza è una questione multidimensionale, non si può affidare solo agli armamenti, perché per esempio anche solo un fraintendimento con il nemico, per mancanza di comunicazione, può rivelarsi pericolosissimo».
Di fronte a un problema così grave, il rischio è che ognuno di noi si senta impotente. «Al contrario, è proprio ora, di fronte a questa escalation, che bisogna attivarsi – conclude Bonaiuti – trovando nuovi modi di partecipazione ma anche riattivando quelli del passato (partiti, sindacati, associazioni), per far sentire la propria voce e trasformarla collettivamente in percorsi politici e legislativi. Niente è scritto nella pietra nelle relazioni umane». «Dobbiamo ricordarci − le fa eco la presidente di Banca Etica −, che le nostre scelte quotidiane contano: chiediamo alle banche o a chi gestisce i nostri fondi pensione dove vengono investiti i nostri soldi, e, se essi vanno a sostenere il mercato delle armi, rivolgiamoci altrove».
L’ha detto e scritto anche papa Francesco in tante occasioni: «Solo fermando la corsa agli armamenti, che sottrae risorse da impiegare per combattere la fame e la sete e per garantire cure mediche a chi non ne ha, potremo scongiurare l’auto-distruzione della nostra umanità» (L’Espresso, aprile 2023). Forse, se lo si ascoltasse un po’ di più, davvero riusciremmo a costruire, come augura Lodi, «in tutta la terra una storia, nuova, senza guerra».

Momento Oppenheimer – la silicon valley a servizio delle imprese militari
di Roberto Reale
Droni, armi robotiche, missili ipersonici, satelliti e sistemi sofisticati di raccolta dati e sorveglianza del territorio. Sono questi solo alcuni dei campi dove l’industria delle armi incontra quella tecnologica. In realtà i «luoghi» dei possibili intrecci sono innumerevoli, molte soluzioni proposte dai giganti del settore hanno un possibile doppio uso, civile e militare. D’altronde non siamo davanti a una novità: pochi lo ricordano, ma pure internet è un prodotto di un investimento della Difesa degli Stati Uniti, effettuato per garantire una rete di comunicazione in caso di attacco nucleare. Allora si era al tempo della guerra fredda con l’Unione Sovietica.
Oggi siamo nuovamente in una fase di crescenti tensioni internazionali e siamo nell’era del vorticoso sviluppo delle «intelligenze artificiali». Qualcuno in America parla addirittura di «momento Oppenheimer»: ci troveremmo, insomma, come negli anni della sperimentazione della prima bomba atomica, in una fase in cui gli Usa dovrebbero correre il rischio di mettere in campo ordigni di cui non si conosce appieno la portata pur di mantenere la supremazia sul pianeta. E da chi verrebbero le principali minacce? Su questo non ci sono dubbi: il nemico è la Cina. Uno che la sa lunga come Eric Schmidt, già amministratore delegato di Google e ora impegnato in attività legate alla «sicurezza nazionale», lo ha detto più volte chiaramente. Ha avvertito che se gli Stati Uniti vogliono vincere la competizione delle «intelligenze artificiali» è necessaria una «massiccia mobilitazione di risorse» proprio come avvenne a fine anni Cinquanta, davanti al lancio degli sputnik sovietici. Riandare a quell’epoca fa però tornare alla mente pure l’accorata denuncia del presidente Eisenhower che, nel gennaio 1961, parlò dei rischi per la democrazia rappresentati dal complesso militare industriale, dagli accordi tra potere politico e industria bellica.
Non a caso proprio la stessa espressione è stata usata quest’anno dalla Brown University di Providence (Rhode Island) in uno studio di straordinario interesse sui costi della guerra. La tesi è che l’intreccio tra grandi aziende e commesse militari ha già subito una trasformazione a vantaggio del comparto tecnologico e dei big della Silicon Valley. I dati sono incontrovertibili: negli ultimi anni, giganti come Microsoft, Amazon, Google, Oracle, Hewlett Packard, Dell, Motorola, IBM hanno ricevuto commesse multimiliardarie. Una prima stima arriva a 53 miliardi di dollari, ma è provvisoria, perché i «centri di spesa» sono diversi e molti contratti sono top secret.
E poi da questo pacchetto manca tutta la parte riguardante i satelliti, settore nel quale primeggia Elon Musk, l’uomo più ricco del mondo, grande sponsor dei repubblicani. Un nome che ci porta a parlare della prossima amministrazione Trump, che sicuramente non ridurrà gli investimenti nel comparto militare e che lascerà piuttosto mano libera alle aziende, affossando le timide iniziative antitrust portate avanti dai democratici.
E non è finita qui: la presenza delle commesse pubbliche entusiasma pure gli investitori privati pronti a impegnare a tutt’oggi almeno 100 miliardi di dollari per sostenere nuove attività collegate. Nota ironica della situazione: i più perplessi di fronte a questo vorticoso giro di denaro sono alcuni generali che temono sprechi inutili e distrazione di risorse. Di certo però c’è un dato di fatto: nel 2024 dobbiamo aggiornare Eisenhower e parlare a ragion veduta di «complesso tecnologico-militare».