La Cura del Vero

Buon Primo Maggio

Buon Primo Maggio. Con una suggestione, una riflessione, un invito. Ripartiamo dalla ri-lettura dello Statuto dei lavoratori.

Alla sua approvazione in Parlamento, era il 20 maggio del 1970, l’Avanti, giornale socialista titolò a tutta pagina: “La Costituzione entra in fabbrica”, sottolineando la portata storica del testo. A volerlo era stato l’allora ministro del Psi,  Giacomo Brodolini, che morì pochi mesi prima del  “sì” e che aveva affidato la presidenza della Commissione dedicata alla stesura dei 41 articoli al giurista Gino Giugni.

È per questo che in calce alla legge 300, entrata in vigore l’11  giugno, c’è la firma di Carlo Donat-Cattin, democristiano, che succedette a Brodolini, assumendo la guida del dicastero che allora si chiamava del Lavoro e della Previdenza sociale, forse a sottolineare che senza il primo non c’era e non c’è nemmeno la seconda. Gli altri sottoscrittori sono il presidente del Consiglio dei ministri, Mariano Rumor (Dc) – insediatosi il 28 marzo il governo Rumor III durò fino al 6 luglio – il Guardasigilli Oronzo Reale (Pri) e il presidente della Repubblica Giuseppe Saragat.

Il contesto in cui si inserisce l’approdo alle Camere dello Statuto è complesso e complicato, caratterizzato da forti tensioni politiche e sociali. Ma anche da un “vento riformista” alimentato dalla partecipazione militante della popolazione: operai, studenti, intellettuali, donne, uomini, mondo dell’associazionismo laico e cattolico.  È tale congerie di idealità e anche di utopie possibili che spinge al varo dello Statuto e non solo. Sono gli anni delle lotte per i diritti sociali e civili.

Un ruolo determinante lo giocano proprio le donne che, in particolare dal dopo guerra, iniziano un cammino faticoso e osteggiato di emancipazione: non ci stanno più a essere gli angeli del focolare, a essere recluse fra le mura domestiche subendo ancora per decenni la retorica del fascismo. Vogliono scegliere.  Anche nel matrimonio. La legge sul divorzio, scaturita sulla scia della vittoria referendaria, è del 1970.

Appena sei anni dopo Tina Anselmi travolge il monopolio maschile nell’esecutivo,  prima ministra della Repubblica. Per nulla una coincidenza. Bensì una conquista.  Partigiana e sindacalista, appena l’anno dopo  è promotrice e tra i firmatari della legge che apre alla parità salariale e di trattamento nei luoghi di lavoro, finalizzata ad abolire le discriminazioni di genere. Nel 1978 istituisce il Servizio sanitario nazionale convinta dell’universalità del diritto alla salute. I suoi fari sono la democrazia e l’uguaglianza.

Ma torniamo al 1970. Il Paese è ancora scosso dalla strage di Piazza Fontana (12 dicembre 1969) che di fatto dà inizio agli di “anni di piombo” con il dilagare del terrorismo di estrema destra e di estrema sinistra: è l’anno della nascita delle Brigate Rosse e del fallito golpe Borghese.

Trascorsi tre anni l’Italia vivrà una delle sue crisi economiche peggiori, provocata dalla crisi petrolifera, e acuita dal ritardo tecnologico, l’inefficienza fiscale, il pesante passivo della bilancia dei pagamenti, la debolezza insita della moneta: un quadro che pare ricalcare, mutatis mutandis, la situazione attuale.

Il lavoro è al centro dell’agenda politica: l’Italia del post ricostruzione si sta trasformando, anche nel paesaggio naturale e non solo sociale, con la massiccia migrazione dalle campagne alle città e dal Sud al Nord.

La Costituzione antifascista lo pone a fondamento della Repubblica (art. 1).

Il primo a delineare i contorni di uno Statuto dei lavoratori, nel 1952 è il capo carismatico della Cgil, Giuseppe di Vittorio. Ci vorrà quasi un ventennio per concretizzarlo. I voti a favore sono 217 (Dc, Psi, Psdi, Pli), quelli contrari 10: si astengono Pci, Psiup e Msi.

L’Unità, il 15 maggio, a pagina 2 spiegherà così il mancato avallo dei comunisti: «Il Pci si è astenuto per sottolineare le serie lacune della legge e l’impegno a urgenti iniziative che rispecchino la realtà della fabbrica, il testo definitivo contiene carenze gravi e lascia ancora molte armi, sullo stesso piano giuridico, al padronato». Fra i punti più negati stigmatizzati: l’esclusione dalle garanzie previste dalla legge nei confronti dei lavoratori delle aziende fino a 15 dipendenti, la mancanza di norme contro i licenziamenti collettivi di rappresaglia. Temi tutt’altro che del passato. Anche quello della frammentazione della sinistra.

Fra le tappe intermedie, nel 1960, la norma che vieta l’appalto di manodopera nel settore dell’edilizia perché di fatto andava in qualche modo a istituzionalizzare il caporalato: oggi l’appalto all’interno della filiera delle imprese è la norma e si è aggiunto pure l’appalto di manodopera, pardon l’intermediazione.

Lo Statuto dei lavoratori spazza via le norme precedenti di riferimento, contenute nel Codice civile fascista del 1942 che si rifanno alla Carta del lavoro del 1927 che disciplina i rapporti tra datori e lavoratori: soppressione dei sindacati, salario imposto, divieto di sciopero, donne escluse da interi comparti.

Non a caso “Della libertà e dignità del lavoratore” e “Della libertà sindacale” sono i Titoli I (artt. 1-13) e II (artt. 14-18) della Legge 300.

L’articolo 1 è sulla “Libertà di opinione”: i lavoratori, senza distinzione di opinioni politiche, sindacali e di fede religiosa, hanno diritto, nei luoghi dove prestano la loro opera, di manifestare liberamente il proprio pensiero, nel rispetto dei principi della Costituzione e delle norme della presente legge. I lavoratori non possono essere sorvegliati né discriminati

L’articolo 14 è sul “Diritto di associazione e di attività sindacale”: Il diritto di costituire associazioni sindacali, di aderirvi e di svolgere attività sindacale, è garantito a tutti i lavoratori all’interno dei luoghi di lavoro.  C’è l’obbligo in caso di licenziamento illegittimo del reintegro nel posto di lavoro, c’è la norma sul comportamento antisindacale e molto altro.

Libertà, dignità, sindacato: parole che specie, oggi, 1 maggio 2025, vengono ripetute, gridate, rivendicate.

C’è da chiedersi che significato assumono in questo XXI secolo in cui il lavoro è sempre più associato a povertà, precarietà, sfruttamento, ricatto, morte. Un secolo in cui il lavoro sta perdendo o ha già perso la dimensione collettiva che lo fa essere elemento qualificante del valore della persona e dello sviluppo democratico e civile di una società equa, eco-sostenibile che ha a cuore il futuro e che non risponde alla mera logica del profitto a tutti i costi, anche quello umano e ambientale.

Luigi Ferrajoli, ex magistrato, giurista, auspica un garantismo come legge del più debole e dell’oppresso contro il potere, a tutela delle persone più fragili e per concretizzare il principio fondante dell’uguaglianza di tutti davanti alla legge.

Il lavoratore è uguale al padrone? Lo sfruttato è uguale allo sfruttatore? Il povero è uguale al ricco? C’è bisogno di un nuovo Statuto dei lavoratori e, aggiungiamo, delle lavoratrici?

Buona lettura, buona Festa dei lavoratori e delle lavoratrici.

  • Redazione

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