Il 3 Gennaio 2025 Ann Telnaes (https://en.wikipedia.org/wiki/Ann_Telnaes), pluripremiata vignettista del Washington Post, si è dimessa. Ha lasciato il suo posto prestigioso presso uno dei più diffusi e autorevoli quotidiani statunitensi perché una sua vignetta politica è stata rifiutata dal direttore del giornale. Messa così, potrebbe sembrare uno dei tanti, ripetuti scontri tra Ego sovradimensionati che animano il panorama mediatico e politico al quale siamo abituati. Ma non è questo il caso.
L’episodio ha i tratti di una svolta, come l’autrice stessa riconosce nella sua pagina personale su substack (https://anntelnaes.substack.com/p/why-im-quitting-the-washington-post): Ann Telnaes lo definisce “game changer”, un cambiamento delle regole del gioco e lo denuncia come un fatto pericoloso per la stampa libera. Perché?
Partiamo dal casus belli, la vignetta.
Il lavoro della Telnaes raffigura un gruppo di persone inginocchiate davanti a una statua colossale di Donald Trump. Tutti con le braccia tese, offrono come doni dei sacchi pieni di dollari. Tra di loro si riconoscono bene Jeff Bezos e Topolino: Amazon e Disney/ABC, due colossi dell’economia e dei media USA. Gli altri personaggi, ancora abbozzati nel disegno che l’autrice ha diffuso, avrebbero dovuto raffigurare Mark Zuckerberg, il padrone di Facebook e Meta, Sam Altman, CEO di AI, e Patrick Soon-Shiong, editore del Los Angeles Times. Insomma: i padroni dei media statunitensi, tutti in ginocchio davanti al moloch.
Il problema è proprio lì: tra gli offerenti c’è anche l’editore e padrone del Washington Post, Jeff Bezos. Secondo Forbes è il secondo uomo più ricco del mondo, dietro a Elon Musk. Ha lucrosi contratti federali da difendere: ecco la chiave per comprendere la necessità di ingraziarsi chi potrebbe revocarli e annullarli, stando alle minacce di Trump. È chiaro: quella vignetta non s’ha da fare.
Si tratta dunque di soldi, tantissimi soldi: una questione da miliardi di dollari. La medesima che, a due settimane dal voto presidenziale dello scorso novembre, indusse Bezos a ritirare l’appoggio a Kamala Harris, opponendosi alla decisione presa dal comitato editoriale del suo giornale. Subito dopo l’annuncio della sua decisione – a molti sembrò chiaro il collegamento tra i due fatti (https://www.nytimes.com/2024/10/27/business/media/washington-post-president-endorsement.html) – Trump accettò di incontrare il management di Blue Origin, l’azienda spaziale di Bezos sempre in cerca di generosi contratti federali.
Il potere ruggisce, i sudditi si inginocchiano: è una regola antichissima e ben nota.
Solo che le democrazie liberali si sono evolute proprio per opporsi a questo destino: il bilanciamento e la divisione dei poteri, il suffragio universale, la libertà di stampa sono tutti strumenti che limitano, sorvegliano, denunciano, sottopongono il potere a un sistema di regole riconosciute, atte a tutelare la libertà e i diritti di tutti i cittadini. Lo stesso giornale di Bezos, subito sotto la testata, porta ancora il fregio poetico “democracy dies in darkness”, la democrazia muore nell’oscurità. Ma, evidentemente, l’inventore di Amazon ha deciso che è più conveniente spegnere la luce.
Pensiamo dunque a quanto poco contino le tanto diffuse e commentate classifiche di Forbes, con tutti quei miliardi che non smettono mai di enumerare: nemmeno la smisurata ricchezza di Bezos lo rende un uomo libero. Al contrario: per difendere i suoi troppi miliardi si prostra e s’inchina come uno schiavo qualsiasi. È proprio questo che non si può più dire.