A cura di Irene Guzzo
La violenza di genere (Gender-Based Violence, GBV) rappresenta una grave violazione dei diritti umani che colpisce le donne di tutto il mondo, indipendentemente dall’età, dallo status sociale o dall’origine geografica. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), circa il 30% delle donne e delle ragazze subisce forme di violenza di genere nel corso della propria vita. Tra i gruppi più vulnerabili spiccano le donne migranti, che affrontano sfide specifiche che ne amplificano l’esposizione alla violenza e ostacolano l’accesso ai servizi di supporto. Contrariamente a percezioni comuni, la loro vulnerabilità non deriva esclusivamente da tradizioni culturali o strutture patriarcali presenti nei Paesi di origine, ma piuttosto da esperienze traumatiche vissute durante il percorso migratorio e dalle condizioni di vita instabili nei Paesi di destinazione.
Per molte donne, la violenza subita nel proprio Paese rappresenta uno dei motivi principali per emigrare. Tuttavia, il viaggio migratorio – soprattutto quando avviene in maniera irregolare – può comportare ulteriori abusi e sfruttamento, in particolare di natura sessuale, perpetrati da trafficanti o altre figure di potere. Una volta arrivate nel Paese di destinazione, queste donne incontrano molteplici barriere che rendono difficile denunciare le violenze subite e accedere ai servizi di aiuto. La barriera linguistica, ad esempio, limita la capacità di comunicare con i servizi di supporto e comprendere i sistemi di protezione locali. Le difficoltà economiche rappresentano un ulteriore ostacolo, soprattutto per chi desidera allontanarsi da un partner violento, ma non dispone delle risorse per pagare un affitto o costruirsi una vita indipendente. In molti casi, la sfiducia nei confronti delle autorità, alimentata da esperienze di razzismo o pregiudizi istituzionali, scoraggia le donne dal rivolgersi alla polizia o ad altre figure di riferimento.
Il controllo esercitato dal partner violento può impedire alla donna di creare legami sociali nel nuovo Paese od ostacolarne l’apprendimento della lingua locale, contribuendo a un isolamento sociale ancora più profondo. Spesso il partner manipola la situazione sfruttando lo status legale della donna, minacciandola di perdere il permesso di soggiorno se dovesse lasciarlo. Questa forma di violenza psicologica amplifica la dipendenza e la paura, intrappolando le donne in relazioni abusanti.
A livello europeo, il tema della violenza di genere è stato affrontato con strumenti normativi e progetti concreti. La Convenzione di Istanbul del 2011 ha sancito l’impegno dei Paesi firmatari nella lotta contro la violenza di genere, con un riconoscimento specifico della vulnerabilità delle donne migranti, rifugiate e richiedenti asilo. In linea con questi principi, la Commissione Europea ha avviato il programma CERV DAPHNE (Citizenship, Equality, Rights and Values), uno dei principali strumenti di finanziamento dedicati alla tutela delle donne vittime di violenza. Questo programma mira a sostenere interventi concreti per la protezione e l’inclusione delle donne migranti, finanziando progetti che affrontano sia le cause che le conseguenze della violenza di genere, con l’obiettivo di offrire soluzioni mirate e integrate.
Uno studio specifico ha analizzato i progetti finanziati dalla Commissione focalizzati sulla protezione delle donne migranti vittime di violenza. L’indagine ha preso in esame dodici progetti realizzati tra il 2016 e oggi in otto Paesi europei, evidenziando sia i punti di forza sia le criticità di queste iniziative.
Da un lato, molti progetti si sono concentrati sulla formazione dei professionisti che operano nei servizi di supporto, migliorando le loro competenze nell’approccio alle donne migranti con sensibilità culturale e rispetto, un aspetto essenziale per creare ambienti accoglienti e privi di pregiudizio. Dall’altro, è emerso che questi interventi presentano una carenza di azioni dirette rivolte alle vittime, con pochi progetti che includono la creazione di sportelli di ascolto o percorsi di supporto psicologico dedicati. È risultata altresì limitata l’implementazione di interventi concreti in aree cruciali come la ricerca di un lavoro stabile, di un alloggio sicuro o l’apprendimento della lingua locale, tutte componenti fondamentali per garantire alle donne un’autonomia reale.
Questa analisi ha inoltre messo in luce come, pur adottando un approccio sensibile al genere e intersezionale, i progetti tendano ad adattare strumenti preesistenti piuttosto che sviluppare interventi basati sulle esperienze dirette delle donne migranti. Manca, in particolare, un approccio “Culture-Centered”, capace di mettere al centro le voci delle partecipanti, coinvolgendole attivamente nella progettazione delle attività e nell’individuazione dei loro bisogni prioritari.
Sebbene i progetti esaminati abbiano prodotto risultati positivi, emerge la necessità di un cambio di prospettiva, che integri realmente le esperienze delle donne migranti nei programmi di prevenzione e protezione. Solo coinvolgendo attivamente le beneficiarie e costruendo interventi a partire dalle loro esigenze sarà possibile sfruttare appieno il potenziale trasformativo delle iniziative finanziate dalla Commissione Europea, garantendo un supporto mirato e duraturo.