A cura di Barbara Rinaldi
In questo ultimi mesi, sui giornali, sui social, in televisione, si è spesso parlato di numerose morti nella fascia giovanile, ciò è, chiaramente, un indice di una sofferenza diffusa a cui tutti e tutte quanti/e noi siamo continuamente esposti ed esposte. In questi casi, nonostante la difficoltà nel capire cosa dire e come dirlo, la condivisione di riflessioni in merito a queste tematiche diventa fondamentale, al fine di rendere tutti e tutte quanti/e consapevoli di ciò che accade attorno a noi. Troppo spesso, infatti, tutti e tutte noi siamo coinvolti/e, bloccati/e nella frenesia della società, focalizzati/e sul raggiungere i nostri obiettivi, sul performare, sul confrontarsi con le altre persone, al punto che perdiamo di vista il nostro e altrui benessere psico-fisico. In questa società frenetica, che pretende tanto, troppo, da noi, il valore di una persona sembra, difatti, misurarsi solo da quanti obiettivi ha raggiunto, da quanto “bene” li abbia raggiunti, per esser precisi/e. In un contesto così richiestivo, con un ritmo così serrato, che ha del disumano, è persino difficile fermarsi a riflettere su eventi di tale portata. Eventi che purtroppo non sono né saranno i primi né gli ultimi. Difatti, le statistiche più recenti dell’ISTAT (2021) riportano che, a seguito della pandemia Covid-19, in Italia, c’è stato un incremento nei tassi di suicidio tra i giovanissimi. Questo dato dovrebbe preoccuparci più che mai, perché è un indicatore di quanto, sempre di più, la nostra società sia piena di sofferenza, quanto essa porti alla nostra alienazione dalle altre persone. Quanto essa ci porti ad essere individualisti/e, assuefatti/e al dolore e alla sofferenza, abituati/e a star male e a vedere chi ci sta intorno star male, senza far nulla, senza prendere una posizione. A tutto ciò, si associa la paura di parlare di queste tematiche, in una società in cui il benessere psicologico non viene visto come una priorità, ma viene, piuttosto, messo da parte e, di conseguenza, lo stare male diventa l’abitudine, la norma. Ciò è indice di una profonda crisi che pervade la nostra società, crisi che parte e riguarda soprattutto la visione del mondo, a cui siamo abituati/e ad essere esposti/e. Una visione meritocratica della società, il mito self made man, tipico del sogno americano, sembra, infatti, essere all’ordine del giorno, portato come esempio da perseguire. Una società che non ti permette di sbagliare, una società che ti fa credere che volere è potere, indipendentemente da tutto, senza considerare le differenze, le disuguaglianze, le ingiustizie. Una società che ti fa sentire sbagliato/a, fallito/a, se non ti conformi alla corsa frenetica, alla competizione, se non raggiungi il podio prima di tutte le altre persone. Una società in cui qualsiasi cosa che “devia dalla norma”, è additata, screditata e messa da parte. Una società che ti fa credere che il riposo sia sbagliato, in cui vengono esaltati casi di persone che si sono laureate in tempi record, con voti eccellenti, casistiche di atleti/e, personaggi famosi che hanno sacrificato tutto per arrivare dove sono, come se tutto questo fosse la normalità. Come se non fosse concesso fermarsi, riposarsi, essere spaventati/e, sbagliare, cadere e rialzarsi, cambiare idea, piangere, avere delle difficoltà. La domanda, a questo punto, che sorge spontanea è: come andrà a finire se non ci mobilitiamo per far sì che questa visione tossica della nostra società cambi? Continueremo ad assistere a morti di persone, di cui molte giovanissime, in contesti universitari, scolastici, lavorativi, senza far niente? Ci va davvero bene così? È vergognoso non prendere una posizione chiara in questi casi, ma non in quanto professionisti e/o esperti/e di salute mentale, ma in quanto esseri umani. Non possiamo essere desensibilizzati/e alla nostra e altrui sofferenza, non possiamo essere indifferenti/e al contesto socio-politico in cui ci troviamo immersi/e, non possiamo ignorare tutto questo: le ingiustizie, la meritocrazia, le disuguaglianze, la sofferenza causate da un sistema neoliberista, che ci vuole sempre più egoisti/e, uniformati/e, concentrati/e sulla produzione e sul guadagno e del resto chi se ne frega. È tempo di prendere una posizione, di ribellarsi a tutto questo. Istituzioni come quelle universitarie, scolastiche, che dovrebbero rappresentare l’istruzione, l’educazione, dovrebbero essere attive nel combattere fenomeni di questo tipo, con l’obiettivo di costruire ambienti inclusivi, sostenibili, che si discostino dalla visione neoliberista e che siano pronti ad accogliere, a comprendere, a dialogare. Per questo, è importante diffondere messaggi di questo tipo e, conseguentemente, diventa inaccettabile non prendere una posizione netta, che preveda e pretenda un’educazione che vada oltre il semplice studio delle materie d’indirizzo, un’educazione che, quindi, comprenda lo studio e il coinvolgimento in attività che si focalizzino sul contesto socio-politico odierno e sugli aspetti civici, affettivi e relazionali. Perché ciascuna persona che ha perso la vita e di cui si sente parlare quotidianamente rappresenta tutti e tutte quante noi, le loro morti rappresentano il fallimento totale del sistema, e, per questo, è ora di arrabbiarsi e combattere perché tutto questo cambi, perché in futuro possa esserci una società che si prende cura dell’ambiente e delle persone, una società che sia sostenibile ed inclusiva e non meritocratica ed individualista. Per un futuro migliore.
Per concludere, il pensiero, a questo punto, va ad ogni persona, studente, studentessa, lavoratore, lavoratrice che sta male, che si sente in trappola, in una società che lo/la fa sentire inadeguato/a. C’è sempre una via d’uscita, se ti trovi in una situazione del genere: chiedi aiuto.
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