La Cura del Vero

Il trionfo e la morte

Dal 3 ottobre scorso è disponibile su YouTube una documentatissima e terrificante inchiesta intitolata “Investigating war crimes in Gaza” (https://youtu.be/kPE6vbKix6A, 81 minuti), realizzata dal nucleo investigativo di Al Jazeera, il network d’informazione basato in Qatar e guidato dallo sceicco Hamad bin Thamer bin Mohammed Al Thani, membro della famiglia Al Thani, che governa il piccolo paese del Golfo ininterrottamente dal 1850. Precisata l’origine dell’inchiesta, occorre anche vederla. E, c’è da esserne certi, è difficile credere che quanto vi è mostrato e descritto risponda a un disegno propagandistico di natura politica. 

Ma che cosa c’è di tanto terrificante? 

C’è la guerra, la distruzione, la violenza che l’esercito di Tel Aviv, da un anno a questa parte, ha portato nella Striscia di Gaza. C’è la morte, le macerie, il fumo. C’è la disperazione, la paura, il dolore. Ci sono i corpi dei prigionieri legati sulle lamiere dei carri armati, come scudi umani; e quelli costretti, in catene, a urinarsi nei pantaloni. Ci sono i bambini in lacrime, le ragazze sfinite, gli uomini distrutti, umiliati, annientati. Ci sono le impronte, sulla sabbia di Gaza, dei quarantaduemila morti contati finora.

È la reazione di Israele all’attacco mortale mosso, proprio da Hamas, il 7 ottobre 2023: causò 1.200 morti e la cattura di 250 ostaggi tra civili e militari di Tel Aviv, tutti colti di sorpresa da quella ormai tristemente celebre sortita. Gli israeliani hanno chiamato la loro missione “Operazione spade di ferro”, lanciata per punire i palestinesi, eliminare Hamas e liberare gli ostaggi.

Fin qui, si dirà, non c’è molto di nuovo: la guerra è guerra, e quello di Gaza il conflitto più osservato e raccontato della storia. “Un genocidio in diretta”, lo definisce  la scrittrice palestinese Susan Abulhawa, volto e voce narrante dell’inchiesta di Al Jazeera. 

Quindi sappiamo tutto? 

No. Non è così. Perché a Gaza sono stati uccisi deliberatamente 128 operatori dei media. Centoventotto testimoni considerati troppo scomodi perché continuassero a raccontarci ciò che avveniva davanti ai loro occhi, lontano dai nostri. Numeri confermati dal Committee to Protect Journalists, di base a New York (https://cpj.org/2024/10/journalist-casualties-in-the-israel-gaza-conflict/), e anche Reporters sans frontières  (https://rsf.org/en/rate-journalists-are-being-killed-gaza-there-will-soon-be-no-one-left-keep-you-informed). Sappiamo molto, forse; ma a che cosa serve? È la domanda che i reporter ancora all’opera nella Striscia si pongono davanti alla telecamera: “Perché sto filmando? Per chi? Tanto non cambia nulla!” dice, disperato, Mohammed Al Helou, freelance ventitreenne. Bella domanda, per tutti noi.

Ma c’è di più, molto di più.

L’inchiesta di Al Jazeera, infatti, insiste su un aspetto molto “contemporaneo” del conflitto in atto: l’esibizionismo dei soldati israeliani. Molti tra i militari dispiegati a Gaza impugnano i loro smartphone e si ritraggono allegramente tra loro mentre fanno esplodere edifici, scuole, moschee. Postano video nei quali ridono mentre le esplosioni scagliano verso il cielo detriti, polvere e fumo. Sghignazzano, ballano, cantano mentre distruggono le case, indossano gli abiti di chi è fuggito… ridono anche mentre, all’interno delle case, spaccano tutto a colpi di mazza. “Siamo diventati dei drogati delle esplosioni”, osserva un ufficiale israeliano nel suo profilo Facebook.

Sullo sfondo c’è la “società civile” israeliana, che sembra anch’essa assetata di guerra: l’inchiesta mostra l’orrore delle feste da ballo organizzate a Tel Aviv, tra i più giovani. Lì si balla al ritmo di canzoni irridenti che per ritornello hanno la frase “Che bruci il tuo villaggio!”. 

Accanto a queste esplosioni di gioia selvaggia, Al Jazeera mostra anche alcuni filmati, estratti da profili social di cittadini israeliani – influencer e persone qualunque. Sono testimonianze importanti, perché vi viene ridicolizzata la sofferenza dei palestinesi di Gaza. Abbigliati “à la palestinienne”, mostrano come produrre una falsa ferita (con il ketchup); c’è chi s’annerisce i denti con un pennello per simularne la perdita e chi fa scorrere con soddisfazione l’acqua che esce dal suo rubinetto, irridendo la sete che affligge i gazawi. Un sabba di ricchi, forti e armati, scatenati contro poveri disgraziati e affamati: la sopraffazione che diventa spettacolo.

Giunto a questo punto, vorrei condividere una riflessione che va oltre l’esito del conflitto e supera i confini giornalistici dell’inchiesta.

Nell’antica Roma, quando un generale rientrava nell’Urbe dopo aver conseguito una vittoria militare importante, poteva celebrare il proprio trionfo. Si trattava di una cerimonia ufficiale fastosa, di un infinito corteo, lungo il quale l’eroe, abbigliato di porpora come Giove e risplendente delle armi vittoriose, esibiva il bottino conquistato. Ne faceva parte la preda simbolicamente più preziosa: il corpo del re o del condottiero sconfitto, in catene, le sue armi ormai inoffensive. 

Maramaldo il generale, come i soldati israeliani. È vero.

Però vorrei ricordare che, oltre ai fasti, gli scrittori romani riportano anche un altro aspetto, altrettanto rituale, di quelle celebrazioni. Lo schiavo pubblico che, salito sul carro del trionfatore, reggeva sulla sua testa la corona aurea della vittoria, doveva sussurrargli continuamente all’orecchio, per tutta la durata del corteo, queste parole: “Respice post te! Hominem te memento!” (Guarda dietro di te, ricordati che sei un uomo). 

Israele, è già scritto, vincerà questa guerra di distruzione. 

Ma chi sussurrerà una briciola di saggezza nell’orecchio di Netanyahu?

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