di Filippo Nosarti
I social media sono diventati il nuovo fronte delle battaglie ideologiche, dove chi combatte la discriminazione rischia, a sua volta, di alimentarne di nuove. In un ambiente digitale che premia l’estremismo e isola dalle critiche, anche le migliori intenzioni possono trasformarsi in intolleranza mascherata. È così che alla misoginia si risponde con la misandria, giustificandola come una forma di femminismo, quando invece – per usare le parole della storica femminista Bell Hooks – “il vero femminismo è per tutti”, non è uno strumento da usare contro qualcuno. È così che al razzismo si replica con altro razzismo, giustificato da slogan come “le persone nere non possono essere razziste”, dimenticando che ogni gruppo umano può discriminare se trova un contesto che lo legittimi. I social, attraverso i loro algoritmi, creano spazi chiusi e autoreferenziali dove è facile crogiolarsi nell’approvazione di chi la pensa allo stesso modo e nei quali è difficile riconoscere i propri errori. In questi ambienti prosperano anche teorie del complotto che prendono di mira gruppi specifici: dal victim blaming nei confronti delle donne vittime di violenza, alla teoria del “White genocide” che vede l’integrazione come un piano segreto per cancellare l’identità bianca, fino alle narrazioni antisemite come quella del “Zionist Occupation Government” secondo cui esisterebbe un governo ombra guidato da élite ebraiche. Ci sono poi le teorie che demonizzano la comunità LGBT, accusandola di “contagiare” la società con identità e orientamenti alternativi, o addirittura di essere una copertura per reti di traffico di minori, e i deliri della cosiddetta “transvestigation”, in cui si raccolgono “prove” infondate per dimostrare che celebrità come Margot Robbie o Henry Cavill sarebbero in realtà transgender. Come diceva Umberto Eco: “I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli”, ma ciò che rappresenta un vero pericolo è il fatto che questi imbecilli possano rafforzarsi a vicenda. Nasce così quello che potremmo chiamare “Effetto Barile”: un processo di “fermentazione” ideologica dove l’isolamento e l’autoconferma alimentano pensieri sempre più estremi, un fenomeno amplificato dall’ambiente online, ma radicato anche nella solitudine e nell’incapacità di confronto. Lo scrittore H.P. Lovecraft è un esempio storico di come un pensiero estremo possa irrigidirsi nell’isolamento, ma anche di come sia possibile cambiare grazie al contatto umano: nei suoi ultimi anni, grazie a nuove amicizie, stava iniziando a rivedere alcune sue convinzioni razziste e xenofobe, rendendolo una persona più aperta e meno assolutista. La sua storia smentisce l’idea che esistano ideologie “inguaribili”: come diceva Hannah Arendt, “il male può essere banale, ma il cambiamento non lo è mai”. Il ruolo della psicologia, in questo contesto, è cruciale: aiutare a decostruire certe credenze non significa solo fornire strumenti intellettuali, ma anche lavorare su bisogni emotivi, traumi e identità ferite. Tuttavia, è essenziale ricordare che anche le psicologhe e gli psicologi sono esseri umani, e che l’esposizione continua a certi ambienti può avere un impatto significativo su di loro: per questo motivo è necessario un supporto costante, aggiornato e condiviso tra professionisti. Ma non serve essere terapeuti per fare la differenza: ogni utente dei social ha una responsabilità, e il primo passo è sviluppare un pensiero critico capace non solo di analizzare le idee altrui, ma anche – e soprattutto – le proprie. Come disse Socrate, “una vita senza esame non è degna di essere vissuta”; allo stesso modo, un’ideologia senza autocritica non è degna di essere sostenuta. E se l’intrattenimento è uno dei mezzi più efficaci per riflettere su questi temi, allora vale la pena consigliare un romanzo come Hedonia di Alberto Vignati, che racconta – in chiave distopica ma non irrealistica – fino a che punto può arrivare l’influenza dei social sulle menti più giovani. E chissà, forse dovremmo davvero iniziare a chiederci se una più alta età minima per accedere ai social rappresenti una misura di censura o una di protezione. In ogni caso, oggi più che mai è necessario ammettere la nuova necessità del mondo in cui viviamo: meno hashtag, più dialogo.
-
Questo sito nasce come luogo di confronto, approfondimento, scambio, riflessione, sulle minacce dei tempi attuali: disuguaglianze, precarizzazione, disinformazione, digitalizzazione senza regole, distruzione ambientale. Abbiamo il fine di intraprendere percorsi tesi a fronteggiarle, a costruire società innovative basate sulla giustizia sociale e ambientale, inclusione, sostenibilità