Straordinariamente ricchi, immensamente poveri.
È il paradosso che connota questo mondo digitale – attenzione, non virtuale… considerate le conseguenze che determinante nostre azioni in rete producono nel mondo reale – nel quale viviamo immersi. E’ un mondo iperconnesso nel quale, al 2020, i device connessi erano la bellezza di 30,4 miliardi (ma diventeranno 200 miliardi nel 2030!); è un mondo nel quale le big tech hanno definitivamente gettato la maschera, mostrandosi per quel che realmente sono, cioè aziende con fatturati non di rado superiori agli stessi bilanci di piccoli Stati ai margini delle economie più strutturate, imprese geneticamente concepite per realizzare utili, accumulare capitali e ben lontane da qualsivoglia concetto di utilità sociale. E’ un mondo nel quale l’annuncio di Meta di abbandonare il terreno del fact checking indipendente, sia su Facebook che su Instagram, in favore di una non meglio delineata attività di verifica dei contenuti da parte delle stesse community di utenti sembra proprio essere l’ultimo atto – in ordine cronologico, almeno ad oggi – di un processo di crescente impoverimento digitale nel quale viviamo.
Perché se da una parte è sotto gli occhi di tutti che la povertà educativa nel nostro Paese sia un fenomeno preoccupante (un dato emblematico per tutti: nel 2023, il 70,5% dei bambini e ragazzi tra i 3 e i 19 anni non è mai entrato in una biblioteca!) è altrettanto vero che sul fronte delle competenze digitali si ha la sensazione che le cose vadano diversamente. Ma è solo una sensazione perché le cose non stanno per nulla così: il Censis nel suo ultimo rapporto di settore evidenzia come tra i ragazzi della fascia di età compresa tra i 16 e i 19 anni si sia registrato un regresso di un punto percentuale (nel raffronto 2021-2023) rispetto al possesso di adeguate competenze digitali di base. Parliamo cioè di adolescenti che su social e rete trascorrono molte ore al giorno.
Insomma, sostanzialmente siamo per lo più un po’ tutti (anche se con le debite differenze), sia generazione Z sia boomer, degli smanettoni che ci industriamo nell’utilizzare degli strumenti – a cominciare dagli smartphone – ai quali abbiamo dato il compito di essere sempre di più i nostri alter ego digitali.
Uno dei punti sui quali, adesso, vale la pena fermare l’attenzione è rappresentato dall’elemento-tempo. Il processo di innovazione tecnologica – specialmente per quel che riguarda strumenti e applicazioni legati alla comunicazione (nella sua accezione più ampia, dall’informazione professionale allo scambio di contenuti sulle piattaforme social) – negli ultimi decenni è stato rapidissimo e impetuoso come (forse) mai era accaduto sinora. Anche qui un esempio per tutti, ed ecco che ritorna prepotentemente protagonista il “solito” smartphone: questo prezioso strumento ha poco più di una quindicina di anni di vita (era il 2007 quando Apple irrompeva sulla scena della tecnologia mondiale con l’Iphone che metteva assieme telefono, macchina fotografica, computer, sveglia, videocamera, navigatore satellitare, lettore musicale, ecc…) ma, anche per chi fosse nato prima di quell’anno, la sensazione è che l’avessimo con noi da chissà quanto tempo! Con gli smartphone, diventati sempre più performanti e capaci di risolvere una quantità crescente di incombenze quotidiane, e con tutti gli altri device oggi disponibili, si è venuta concretizzando una sorta di nuova rivoluzione industriale che potremmo definire low cost, almeno rispetto a quella originale che si sviluppò a cavallo tra XVIII e XIX secolo. Quella, infatti, fu una rivoluzione che impattò, prioritariamente, su un più ristretto nucleo di imprenditori (oggi li chiameremmo così) certamente visionari ma anche con capacità economiche e finanziarie ragguardevoli (passare dal cavallo ai cavalli vapore non fu, anche finanziariamente, un gioco da ragazzi) e solo successivamente atterrò nella quotidianità; quella che stiamo vivendo adesso, invece, oltre a essere una rivoluzione industriale più trasversale che in maniera rapida ha coinvolto miliardi di persone nel mondo (una su sette possiede uno smartphone) può bene essere considerata a basso costo visto che alcuni devices sufficientemente performanti si acquistano al dettaglio con qualche centinaio di euro.
E proprio da una parte l’accessibilità economica a questi mezzi, non disgiunta dalle maggiori opportunità fornite da un sistema del credito che – su questi segmenti minimali – amplia in maniera considerevole la fascia dei possibili utilizzatori, e dall’altra la crescente semplicità del loro utilizzo sono due elementi che, paradossalmente, alimentano la povertà educativa digitale. Smartphone e tablet sempre più capaci di essere agevolmente utilizzati anche da chi, non avendone la benché minima competenza si limiti a usarli, in qualche modo minano alla base quella necessaria consapevolezza nel loro utilizzo che rappresenta, invece un saldo ancoraggio al quale non dovremmo mai rinunciare. “Macchine”, quindi, sempre più potenti, sempre più veloci, sempre più semplici da utilizzare che, inevitabilmente (ma anche inconsapevolmente?), comprimono la nostra abitudine al ragionamento, diradano la necessità di porci domande, a cominciare dal chiederci quale costo – oltre a quello in euro al momento dell’acquisto – effettivamente paghiamo per quel bene, ad esempio in termini di dati personali che, una volta consegnati al mondo digitale, assai difficilmente rimangono sotto il nostro esclusivo ed effettivo controllo. E questo rischia di accrescere ulteriormente il tasso della povertà educativa digitale di casa nostra.